Renato Farina, uomo del Sismi

Nel luglio 2006 scoppia il “caso Abu Omar”, l’Imam sequestrato a Milano il 17 febbraio 2003 da agenti della Cia e condotto segretamente in Egitto in esecuzione di una “extraordinary rendition”. Dalle indagini della Procura di Milano emerge il ruolo attivo del Sismi e di alcuni giornalisti ad esso legati. Tra questi Renato Farina, vicedirettore del quotidiano “Libero”, nome in codice “Betulla”, che ha instaurato un rapporto organico retribuito con i vertici del Sismi, ai quali rende conto con periodiche “relazioni di servizio”.

Secondo gli inquirenti, Farina, indagato per favoreggiamento nel sequestro di Abu Omar, dietro pagamento di somme di denaro ha ricevuto dal Sismi vari compiti, tra cui carpire il maggior numero di informazioni dalla Procura di Milano sulle indagini condotte e avviare una campagna stampa che addossi a Romano Prodi la responsabilità di aver autorizzato le extraordinary rendition in Italia quando era presidente della Commissione Europea. Nel comportamento di Farina spicca l’intervista del 22 maggio 2006 ai pm milanesi Spataro e Pomarici. Ufficialmente chiesta per ragioni di cronaca, in realtà fatta per raccogliere informazioni da riferire al Sismi, e per fornire ai due pm false informazioni su un presunto coinvolgimento di Stefano Dambruoso, l’ex pm milanese già titolare di inchieste sul terrorismo, al solo scopo di far passare le indagini alla Procura di Brescia.

Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia apre subito un procedimento disciplinare contro Farina, che ammette i rapporti con il Sismi, insieme alle retribuzioni, giustificando il suo operato con la necessità di aiutare i servizi segreti nella guerra all’Islam e al terrorismo. Per il Consiglio, Farina ha compromesso “la sua dignità e quella dell’Ordine al quale appartiene, ferendo anche il rapporto di fiducia che deve esistere tra stampa e lettori”. Ma, nel contempo, considera “il prezzo devastante che lo stesso ha già pagato sul piano dell’immagine e della credibilità”, poiché “nella moderna società dell’informazione i mezzi mediatici sono in grado di incidere profondamente sul decoro e sulla dignità di una persona”, ritenendolo “bersagliato da una campagna denigratoria senza confronti” e oggetto di una “sanzione massmediatica più incisiva e afflittiva oggi della stessa pena o della stessa sanzione disciplinare soprattutto quando il protagonista è un professionista”. A conclusione del procedimento il Consiglio applica a Farina la sanzione disciplinare della sospensione di 12 mesi dall’esercizio della professione.

La Procura generale di Milano impugna la delibera dinanzi al Consiglio Nazionale, come gli consente l’art. 60 L. n. 69/1963, giudicando inadeguata la sanzione della sospensione. Il Consiglio Nazionale, ritenuto che “il comportamento di Farina resta incompatibile con tutte le norme deontologiche della professione giornalistica ed ha provocato un gravissimo discredito per l’intera categoria”, ne delibera la radiazione “per aver tradito, asservendola al Sismi, la professione giornalistica e rendendo così incompatibile con la dignità professionale la sua permanenza nell’albo”.

(Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, 29 marzo 2007)
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Porsi a disposizione di un servizio segreto, dietro pagamento di somme di denaro, per pubblicare notizie false sulla base di precise “veline” e per sviare le indagini della magistratura, costituisce con ogni probabilità il comportamento peggiore che un giornalista possa tenere. Qui è evidente la violazione delle norme, contenute nella Carta dei Doveri, che lo obbligano al “rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede” ed a “promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori”; che gli vietano di subordinare il proprio operato “agli interessi del governo o di altri organismi dello Stato” e di “accettare privilegi, favori o incarichi che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità professionale”.

Tra l’altro, l’art. 7 L. n. 801/1977, istitutiva del Sismi e del Sisde, vieta espressamente a entrambi “di avere alle loro dipendenze, in modo organico o saltuario, membri del Parlamento, consiglieri regionali, provinciali, comunali, magistrati, ministri di culto e giornalisti professionisti”. L’illegittimità dell’accordo di assunzione deriva dalla necessità di salvaguardare proprio l’autonomia e l’indipendenza dei soggetti indicati, a causa della delicatezza della funzione espletata. Tra questi il giornalista professionista. Ne deriva che è la stessa legge a ritenere particolarmente grave la compromissione dell’autonomia del giornalista retribuito dai Servizi.

Su queste basi, non c’è dubbio che il comportamento di Farina, per giunta prolungato nel tempo, abbia “provocato un gravissimo discredito per l’intera categoria […] rendendo così incompatibile con la dignità professionale la sua permanenza nell’albo”, come dice il Consiglio Nazionale. Ma qualche parola in più va spesa sulla motivazione con cui il Consiglio Regionale della Lombardia aveva deciso di comminare a Farina la sanzione della sospensione, poi impugnata dal pg di Milano perché ritenuta inadeguata.

Il Consiglio Regionale della Lombardia, pur ritenendo grave la condotta di Farina, aveva tenuto conto del “prezzo devastante” che il giornalista ha dovuto pagare per effetto della pubblicità della vicenda, considerandolo vera e propria “sanzione massmediatica” più afflittiva della stessa sanzione disciplinare. In altre parole, a giudizio del Consiglio Regionale il discredito di Farina sarebbe derivato non dal comportamento accertato e da lui stesso ammesso, ma dal fatto che i media se ne sono occupati.

Si tratta di un’argomentazione francamente incomprensibile. Un autorevole giornalista che si scopre essere pagato dai servizi segreti per intralciare le indagini della magistratura e pubblicare notizie false è senza dubbio una notizia, perché di sicuro interesse pubblico. E l’attività dei media finalizzata a soddisfare il legittimo interesse della collettività ad apprenderla non può mai essere considerata un danno per il protagonista. Non si può essere “vittima di un fatto lecito”. Se così fosse, verrebbero meno i fondamenti stessi del diritto di cronaca. Sarebbe come se un tribunale concedesse in sentenza una considerevole riduzione di pena ad un ministro corrotto, in considerazione del “danno” procuratogli dagli organi di informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca. Un’argomentazione che trasforma il colpevole in vittima di un’attività lecita, come tale inaccettabile per il Diritto.